SOCIETÀ TRA PROFESSIONISTI, L’ALEA DEL GIUDICE SUL REDDITO

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È fonte di notevoli incertezze la sentenza della Corte di cassazione 7407/2021 sull’assoggettamento a ritenuta d’acconto dell’onorario pagato a una società tra professionisti costituita in forma di Srl (si veda «Il Sole-24 Ore» del 17 marzo). Sino a oggi, infatti, si era (anche se faticosamente) consolidata la convinzione che i professionisti potessero scegliere liberamente tra due regimi fiscali ben distinti:

• quello rappresentato dal reddito di lavoro autonomo, nell’ambito del quale rientra il professionista singolo, lo studio associato di cui all’articolo 5, comma 1, lettera c), Tuir e (laddove ammessa) la società semplice;

• quello rappresentato dal reddito d’impresa, a cui viene ricondotta la società tra professionisti in forma di società commerciale.

Al di là del fatto che questa suddivisione è pacificamente accolta anche dall’agenzia delle Entrate, essa ha il pregio della chiarezza e consente ai professionisti di fare scelte ben precise. Da un lato, ci sono i vantaggi del regime di cassa e dell’assenza della quantificazione dei «lavori in corso» e delle «fatture da ricevere», ma c’è lo svantaggio della ritenuta d’acconto (su cui, in effetti, si potrebbe intervenire per mitigarne l’impatto). Dall’altro, ci sono tutte le conseguenze del principio di competenza, ma il vantaggio di non subire ritenute; inoltre si può parlare, senza ritrosie, di “avviamento”. Ciascuno può fare le proprie valutazioni e scegliere da che parte stare. Se c’era un tema in sospeso, semmai, come più volte affermato si queste pagine e rimarcato da tempo dai vertici delle categorie professionali, era quello di estendere al mondo professionale le regole di neutralità sui processi di crescita proprie del reddito d’impresa (conferimento e altre operazioni straordinarie). Anche nella recente raccolta di proposte fiscali di semplificazione e razionalizzazione presentate dal Consiglio nazionale dei commercialisti alle commissioni parlamentari nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulla riforma fiscale, il nodo della neutralità fiscale del processo evolutivo degli studi associati e dei professionisti singoli verso le Stp è evidenziato in modo assai chiaro, mentre sul regime “fiscale” ordinario delle Stp viene fatta una proposta del tutto innovativa. Si propone, infatti, di introdurre per le Stp costituite in forma di società di capitali e cooperative con ricavi non superiori a 400mila euro annui un regime opzionale di determinazione del reddito d’impresa, secondo i dettami dell’articolo 66 del Tuir, ossia quello che oggi è il regime «misto di cassa e competenza» delle imprese in contabilità semplificata. De iure condendo questa appare una soluzione percorribile, con le garanzie della certezza del diritto e, aspetto non marginale, opzionale.

Invece, disquisire sulla prevalenza o meno, all’interno di ogni singola struttura, tra lavoro professionale ed elementi imprenditoriali (organizzazione del capitale e del lavoro altrui) può, forse, avere un senso in ambito civilistico (ad esempio, per decidere sulla fallibilità o meno del soggetto di diritto) ma, in campo fiscale, non può che creare complicazioni a non finire, come dimostra molto chiaramente la copiosissima giurisprudenza in tema di Irap. Imboccare un percorso simile per qualunque pagamento in favore di una Stp o per ciascun bilancio essa si trovasse ad approvare creerebbe un caos talmente ampio da determinare l’abbandono dell’esperienza societaria per i professionisti.

Il Sole 24 Ore