Gli ermellini tornano sulla prededuzione dei professionisti nel concordato preventivo escludendo la prededuzione per l’advisor. Con la sentenza n. 4710/2021 la Suprema Corte esclude la prededuzione del professionista per il credito sorto con un piano di concordato rinunciato prima dell’ammissione (si veda l’articolo di Patrizia Maciocchi). La pronuncia si inserisce in un recente filone inaugurato da Cassazione (sentenza 639/2021) che nega la funzionalità della prestazione professionale se la procedura non sia stata almeno ammessa.
Secondo il nuovo orientamento, il credito non può essere dichiarato funzionale alla procedura se non ha raggiunto un obiettivo minimale identificato con il decreto di apertura. La Corte non fa mistero dell’obiettivo perseguito: escludere ogni incentivo alle procedure prive di concrete possibilità di giungere alla meta.
La pronuncia anticipa la soluzione dell’articolo 6 lettera c) e d) del Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza che condiziona il beneficio della prededuzione all’ammissione della procedura minore, limitandola curiosamente ai due terzi dell’importo nominale. Essa rompe in modo plateale con il precedente diritto vivente che ammetteva la prededuzione se l’attività professionale risultava ricondotta nello schema del concordato e nelle sue finalità, secondo una valutazione ex ante (Cassazione n. 127538/2019), anche in assenza di ammissione.
Il nuovo indirizzo non appare coerente. Non si comprende perché il professionista soddisfatto prima e durante la procedura debba essere discriminato rispetto a quello insoddisfatto. Quando gli advisor sono pagati prima del deposito del ricorso, sono esentati dalla revocatoria ex articolo 67 terzo comma lettera g) della legge fallimentare. Si tratta infatti di debiti liquidi ed esigibili eseguiti alla scadenza per ottenere servizi strumentali all’accesso alle procedure concorsuali, concordato compreso. Incoerente appare il destino dei crediti professionali sorti in occasione, e dunque in pendenza del concordato, anche eventualmente rinunciato.
Essi sono leciti dopo il deposito del ricorso ed esentati dall’azione pauliana ( articolo 67 terzo comma lettera e) legge fallimentare). Non si comprende come il solo criterio temporale possa condizionare il rango del credito professionale: così vengono meno le certezze a supporto dei consulenti che devono (tentare di) trovare una soluzione al dissesto. Del resto, il concordato in bianco è per sua essenza un tentativo, e la rinuncia deve considerarsi fisiologica non patologica. Non appare equo che l’indagine dei possibili percorsi di ristrutturazione non venga pagata, se non al prezzo di indurre gli advisor (e peggio, l’attestatore) a depositare piani che verranno ammessi solo per stabilizzare la prededuzione dei compensi, ma che verranno arrestati poi in seguito perché privi di consistenza, in una sorta di eterogenesi dei fini rispetto all’obiettivo dichiarato dalla Cassazione.
Il tentativo di scongiurare costi professionali apparentemente inutili ricollegando all’ammissione il beneficio non si raggiunge con l’ammissione: anche dopo il provvedimento di apertura, il concordato può arrestarsi per diversi eventi, non solo patologici, come la mancata approvazione o il rigetto dell’omologa. Per evitare un probabile vivo contenzioso, soprattutto nella giurisprudenza di merito, il procuratore generale ha già rimesso alle Sezioni Unite l’onere di decidere se tornare all’interpretazione storica, o stabilizzare la nuova soluzione.